Giovanna Caraci

Il vento e la speranza

La strada che lungo le mura Aurelie sale sul Gianicolo, costeggia una collina di sterpi, che un tempo era una campagna fitta di orti e casolari, con la tinozza nel prato e le galline che razzolavano al sole. Ai primi dell’800, in uno di quei casolari, viveva una famiglia di contadini e pecorari, così come tutta Roma era campagna e greggi. Il padre, avventuratosi ai Castelli, era scomparso nel nulla, forse travolto dai briganti che infestavano l’Appia, e nel casolare erano rimaste Cesira con la figlia Marta e nidiate di gatti che si perdevano nei campi.

Marta metteva nell’aia la scodella col latte, e sognava.
Quello che succedeva lassù, oltre le mura, o laggiù, in città, arrivava nei resoconti arruffati di Righetto, il ragazzino che da Trastevere saliva a prendere le capre da mungere a piazza Montanara, e giocava a rincorrersi con Marta nel prato; o delle donne che venivano a comprare la verdura: chi è stato ammazzato? Pellegrino Rossi? E chi era? Dice che ci sarà la rivoluzione. Il papa? Scappato? No, non ci credo! Sì, dice che è scappato vestito da prete
Era il novembre del ’48, e quelle storie, davanti al fuoco, parevano favole.
L’anno dopo, verso la fine d’aprile, un vicino irruppe in casa, mentre madre e figlia stavano mangiando il pane della colazione: c’era un nuovo governo, che aveva deciso di distribuire le terre ai contadini! Marta aveva spalancato gli occhi: la terra? E quanta ce ne daranno? Cesira, abituata a non fidarsi dei sogni, ripose il pane nella madia e si alzò senza fiatare. C’era da seminare il radicchio con la luna crescente, e poi gli agnelli appena nati, le erbacce nell’orto … quel posto, poi, non era più tranquillo come prima. Si vedevano girare ragazzi con delle giubbe strane, volontari di Garibaldi, dicevano, ma chi era Garibaldi? E là sotto, a Porta Cavalleggeri, pare che c’erano i soldati francesi.
Cesira, quando andava a lavorare i campi, raccomandava a Marta di non avventurarsi oltre l’orto, e di tenere a portata di mano la roncola.

Il trenta aprile, giù, verso il Tevere, esplose un crepitio di spari e il rombo d’un cannone; poi urla, comandi e una fiumana di soldati che scende a precipizio verso Porta Cavalleggeri. Marta corse in casa, sbarrò la porta, aspettando col cuore in gola il ritorno di sua madre. Per tutto il giorno, fu un’ira di Dio. Quando tornò la quiete, gli abitanti della collina s’azzardarono fuori delle case: sono scappati, scappati! Chi? I francesi! Dice che volevano prendere Roma, ma Garibaldi li ha inseguiti fino a Malagrotta. Chi è Garibaldi? Chiese Marta e fu assalita da un coro di voci: un santo, un brigante, un eroe, uno scomunicato che si porta dietro una donna vestita da soldato! Come, è sua moglie? Sì. Una certa Anita. Qualcuno si fece il segno della croce.
Un mattino di maggio del’ 49, nella quiete della campagna, risuonò la voce di un uomo, che diceva qualcosa in una lingua sconosciuta. Scalza e silenziosa, Marta afferrò la roncola e girò intorno alla casa: la mano sul cancello, senza osare aprirlo, un ragazzo si guardava intorno, con un fazzoletto rosso al collo, e la faccia d’un affamato.
Lui vide Marta, e sorrise. Lei lo guardò negli occhi, e la roncola le cadde per terra.
Il ragazzo mormorò qualcosa: parole inutili, perché lei gli riempì una ciotola di latte, restando a guardarlo mentre lui se lo succhiava tutto come un gatto randagio, e poi gliela porgeva, chiedendole con gli occhi di riempirla di nuovo. Il ragazzo ringraziò con un sorriso, poi le afferrò le mani e gliele baciò. Marta arrossì e le nascose sotto il grembiule. E come capita quando ci s’intende a dispetto di qualunque distanza, appoggiati al cancello, si parlarono.
Mio nome? Gerard. Studente, venuto dalla Francia a combattere con Garibaldi per la libertà …
Marta sgranò gli occhi: Garibaldi? Dov’è?
Lo stiamo aspettando, eravamo con lui a Velletri, ma siamo in pochi e dobbiamo nasconderci …
Mio nome? Marta. Vivo qui con mia madre, che sta lavorando i campi, laggiù …
Cominciò così una segreta storia d’amore: che seguitò negli anfratti sotto le scuderie di Villa Corsini, in una grotta coperta di fitti tralci d’edera, a pochi passi dal Casino del Bel Respiro, la grande villa di famiglia dove i principi Pamphili avevano ospitato gli occupanti.
Sotto i prati di Villa Pamphili, c’è tutta una trama di cunicoli dove, a conoscerli, non ti trova nessuno. Il generale Vaillant, che pure aveva studiato la topografia dei luoghi, dei cunicoli non sapeva nulla; ma li conosceva Gerard, perché le truppe di Garibaldi c’erano entrate, quel trenta aprile che Marta s’era barricata in casa.
Magia della primavera che declina verso l’estate sul Gianicolo, su questo colle orlato di mura antiche, porta di Roma verso il mare, giardino di terrazze profumate, dove arriva quel ponentino che ormai si sente solo quassù.
Era il mese di maggio: la diplomazia parlava, i fucili tacevano.
Marta e Gerard, abbracciati nel ventre della terra, centellinavano i minuti di quella fuggevole pace; nella grotta irrompeva il vento di primavera, portando il profumo delle magnolie, e speranza d’un mondo migliore.
“Gli italiani non si battono” aveva detto sprezzante il generale Oudinot, prima che i garibaldini lo mettessero in fuga; ma subito dopo aveva chiesto a Parigi altre truppe, firmando un solenne impegno col generale Rosselli: i combattimenti non sarebbero ripresi prima del quattro di giugno.

La notte del due giugno, i bersaglieri di Manara attendono in piazza del Popolo, Garibaldi è appena arrivato in città, e sul Gianicolo ci sono poche centinaia di volontari.
All’una di notte, i francesi attaccano a tradimento. Tutte le campane di Roma suonano a stormo, da Trastevere, da Testaccio, da Borgo, da Prati, il popolo si precipita sul Gianicolo; accorrono gli uomini che presidiavano le ville, i lancieri di Masina, i legionari di Garibaldi, che sulle mura del Vascello grida una sola parola: ”Avanti!”
Trentamila uomini contro novemila garibaldini. Gli italiani si battono, generale Oudinot; e si scatena l’inferno.
Cade il capitano Montaldi, che ha seguitato a combattere crivellato di ferite, e Morosini, diciassette anni, Manara, ventiquattro anni; il Tamburino, sedici anni, raccoglie il suo fucile e spara, finché una palla non lo coglie in fronte.
Righetto, dodici anni, si precipita a bagnare le micce inesplose, Marta gli grida di aspettarla, lo perde di vista, corre tra il fumo degli spari cercando Gerard.
Oudinot bombarda ferocemente la città, Colomba Antonietti, vent’anni, sta riparando uno squarcio nelle mura, quando un proiettile la centra in petto.
Nella notte del ventinove, mentre si scatena un nubifragio, i francesi travolgono Villa Corsini; un manipolo d’italiani resta isolato, tra loro c’è Marta, che si raggomitola sfinita sotto un riparo di fortuna, piegata da un vago malessere. Marta è incinta.
Alle due di notte Oudinot sferra l’ultimo attacco. Il poeta dell’inno nazionale, Mameli, ventidue anni, è ferito a morte. Righetto si butta su una miccia troppo corta, e la sua corsa si ferma per sempre.
Al mattino, un sole ignaro inondò i prati bianchi di margherite. Un gelido silenzio aveva annunciato la tregua per seppellire i morti, poi fu il caos: tra rovine fumanti, urla, ordini, feriti, barellieri che correvano, Marta s’avventò tra le macerie gridando il nome di Gerard, nessuno le rispondeva.
Non dovette cercare molto. Lo trovò nel giardino del Vascello, sulle radici bruciate d’un leccio: il fucile in una mano, l’altra abbandonata, aperta verso il cielo. In ginocchio, lo chiamò sottovoce, gli bagnò la fronte, gli pulì la bocca piena di polvere perché potesse rispondere: ma i suoi occhi fissavano un punto ormai lontano. Allora si rannicchiò per terra, e riempì di lacrime quella mano aperta al sole. Poi lo seguì, quando i suoi compagni vennero per portarlo via; come tanti, fu seppellito nelle gallerie sotto casa Giacometti, e lì, nel ventre della terra, lo salutò con una carezza, come l’ultima volta che si erano lasciati.
Alla figlia che nacque, mise nome Anita.

Questo racconto ha vinto il Premio Letterario Coppedè - Seconda Edizione (2011)

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