Giovanna Caraci

La spalliera di stelle

Una scala di cento gradini scendeva alla spiaggia, perché il paese era in alto, su una terrazza: la piazza, la chiesa, e intorno case che s’erano fatte spazio tra quercini, corbezzoli e olivastri, la macchia mediterranea che copriva ancora tutta la costa; e la sera si passeggiava per il paese come in un bosco. 

La casa che avevamo in affitto era di fronte al mare, e davanti a noi c’era un orto con una vigna, una siepe di fichi d’India, e una costruzione bassa, un paio di stanzette, dove viveva la Vecchia.
In paese, forestieri non se ne incontravano, ci conoscevamo tutti; poi un’estate, dai primi di giugno, cominciarono a vedersi in giro facce sconosciute, tizi che s’avventuravano con giri lenti e svagati, intorno alle botteghe del merciaio e del ciabattino, agli orti di pomodori, alle case a un piano imbiancate a calce, tirate su col fiato di tutta una famiglia.
Una mano in tasca e il portafogli sul cuore, chiacchieravano del più e del meno col gestore del bar, bevendo come per caso un caffè, e intanto tendevano le orecchie.
Sarebbe bastato che uno il primo, si decidesse a mollare: gli altri sarebbero seguiti a grappolo.
Sei per sei trentasei, sei per otto quarantotto”... contavano mentalmente mentre si scappellavano a destra e a manca, ”in quest’orto tiro su quattro piani e scavando sotto la strada, anche cinque. Vengono fuori venti appartamenti. Poi li condono”.
Sei per sei trentasei, sei per otto quarantotto, queste due botteghe le unisco, e ci faccio una sala giochi“…
Pagamento in contanti e ritorno centuplicato, come dallo spalancarsi di tutti gli slot machines della regione.

La Vecchia non era tipo da farsi infinocchiare. Se bussavano alla porta – ho sentito tanto parlare della sua vigna – non chiedeva nemmeno: chi è?
“Finché vivo, la vigna è mia” ripeteva a Cosimo e Luciano, i nipoti, che avrebbero preferito onorarla da morta che da viva; e lei seguitava a zappare e concimare, e prima della fine di agosto, a vendemmiare; dal balcone la vedevamo adagiare nel cesto, con mani devote, i grappoli polposi, d’un intenso colore blu scuro, il colore delle more mature.
Dal balcone le gridavamo: possiamo aiutarla?
Sorrideva: no, grazie, faccio da sola, ci sono abituata. Solo al momento di fare il vino, apriva la porta a due contadini, di quelli che abitavano ancora la campagna oltre la provinciale, sempre gli stessi, e con loro si chiudeva a trafficare in cantina.
Dopo venti giorni, le vedevamo tornare tra i filari per la seconda vendemmia: i vitigni erano di Primitivo, e il suo vino aveva l’aroma vellutato del primitivo di Manduria, sapeva di spezie, di frutti di bosco, di tabacco, ed era forte come tutti i vini di uve cresciute sui terreni argillosi vicino al mare, carezzati dalla brezza e scaldati da un sole generoso.
Noi lo sapevamo bene, perché ogni anno ce lo regalava, e partivamo con le preziose bottiglie nel portabagagli, avvolte nei giornali; quel vino che a Natale, davanti al camino acceso, portava in casa il sole dell’estate.
Poi, a ottobre, quando i villeggianti se n’erano andati, la Vecchia, con due fiaschi di vino novello, scendeva in ciabatte sulla spiaggia, dove i suoi amici pescatori l’aspettavano, unica invitata, per la festa di fine stagione, cucinando il pescato della notte su un fuoco di legna.

Avevamo affittato la casa per tutto l’anno, perché i bambini avevano bisogno di mare, e ci restavamo fino all’autunno; d’estate era rinfrescata dal ponentino e dall’alito verde-azzurro delle viti; dopo, intiepidita dal sole.
Non c’era bisogno di condizionatori.
L’unico che non ci stava volentieri era Placido: l’occasione di fare lo scapolo tre mesi l’anno, non poteva essere sprecata. Arrivava il venerdì sera con la faccia del condannato, non sopporto il sole! Usciva di casa al tramonto e le rare volte che scendeva alla spiaggia, si vestiva di tutto punto: calzoni, calzini, mocassini, camicia, e pullover di lana anche a Ferragosto. Era diventato un’attrattiva del litorale, la gente passeggiava in fila indiana sul bagnasciuga, per vedere, tra natiche nude e ventri all’aria, il dottore sotto l’ombrellone, vestito come a Natale.
La notte della domenica, Placido ripartiva per la città; e il venerdì seguente, quando tornava, s’era dimenticato in qualche tasca, ricevute di romantiche cene a due.

La scala scendeva al mare lungo il dirupo delle meraviglie: una spalliera ricoperta da cima a fondo, fino all’orizzonte, fin dove arrivava lo sguardo, dalle corolle viola della Delosperma, che spalancava su un tappeto di polpa verde i suoi fiori stellati, dai primi di maggio ai primi dell’inverno.
La spalliera di stelle.
Quando apriva lo stabilimento, - dieci sdraio, un bagnino, una macchinetta del caffè, - eravamo i primi, con i figli in braccio, ad arrivare. Davanti a noi a un mare cristallino, dietro di noi la spalliera di stelle: un paesaggio che ricordava lidi esotici, una pace perfetta in cui leggere o sognare, rotta solo dagli strilli dei bambini che si rincorrevano, e dal fischio minaccioso del bagnino, se t’azzardavi a nuotare dove non si tocca.
Solo dopo il tramonto, Placido veniva con noi, e ci avventuravamo a remi su due gusci di noci, davanti allo stabilimento, a pescare con canne e bolentini quello che capitava: fragolini e bavose, saraghi, aguglie, qualche orata. Quel pesce si cucinava subito, su una grande griglia nella terrazza degli amici, profumava di mare, e aveva un sapore così straordinario, che mai più, nemmeno nella migliore pescheria della città, s’è più ritrovato.
E’ da allora che Placido non mangia più pesce: “non è come quello che pescavo io”, dice scostando il piatto, dove lui vede un minaccioso rombo pescato chissà quando, chissà da chi; ed io un biglietto da venti euro scomparso miseramente nelle tasche del pescivendolo.
Alla fine mi convinsi che non è vero che il pesce fa bene, a me faceva malissimo, dopo che m’ero ingozzata anche la parte di Placido per non sprecarla, o quando invece mi arrendevo, e la buttavo nel secchio.
“Non è come quello che pescavo io”.
“Il dottore ha detto che bisogna mangiare pesce”.
“Questo odora di pesce”.
E’ pesce. Di cosa dovrebbe odorare? “
“Di mare. Quello che pescavo io, odorava di mare”.
Vattelo a pescare, allora, sibilavo, mentre sogliole e naselli tintinnavano come monete, cadendo nella spazzatura.
Poi, per fortuna Placido è diventato vegetariano: vuoi mettere quanto costa una spigola, e quanto un cespo d’insalata?

Il rito mattutino prevedeva una fuga dall’ombrellone, ognuno per conto proprio, per vie segrete, perché tutt’intorno c’erano spiagge incontaminate da esplorare, rocce e caverne, dune dove fioriva il giglio di mare, prati di giunchiglie, boschi di pini, macchie di quercini.
Ognuno poi tornava all’ombrellone verso l’ora di pranzo, come colombe dal disio chiamate, con un mazzo di rosmarino selvatico, o un sasso raccolto sulla riva che sembrava un diamante, un ramo torto dalle onde come un mostro marino, un pugno di telline pescate sul bagnasciuga.
Io arrivavo fino alla Torre della solfatara: un’impresa, un’avventura, il luogo era selvaggio, protetto da massi di roccia e grandi scogli che affioravano dal mare; ma proprio per questo, un premio per chi riusciva a passare senza rompersi una gamba, e quindi a passare erano in pochi; e poi c’era un’acqua così limpida che sembrava Giannutri. Mi portavo dietro un paio di ciabatte, altrimenti sarebbe stato impossibile scalare le rocce aguzze del promontorio, dietro al quale si allargava una spiaggia segreta tonda e placida: e questo era il mio premio. Qui c’erano solo dei ragazzini che si tuffavano a pescare polipi e arselle a mani nude, qualche pescatore sulla riva, e fin lì, e oltre, mi accompagnava la spalliera fiorita.
Mi sedevo su uno scoglio, con i piedi nell’acqua, tra il giallo intenso della solfatara, e il viola della Delosperma; restavo ad occhi chiusi a sentire il rumore del vento.
Il moto delle onde svelava e risucchiava piccoli esseri, pesci, ragnetti, ricci di mare, che ad ogni spruzzo mi carezzavano le gambe.
I pescatori, la canna in mano, silenziosi, immobili assorti nel loro rito, si assomigliavano tutti, e guai a importunarli.
Uno solo m’incuriosiva, un tale che pescava con la canna da lancio lontano dalla riva, per non incagliare l’amo tra gli scogli; gli stivaloni fino all’inguine, un cappellaccio in testa.
I pescatori sono permalosi e scaramantici, perciò per giorni e giorni lo guardai in silenzio lanciare, poi sedersi sulla cima d’uno scoglio, gli occhi fissi al galleggiante; di scatto recuperare la lenza, e infilare nel retino immerso nell’acqua qualcosa… chissà cosa pescava, se in quel retino c’infilava spigole che prendeva solo lui, se era un vecchio, o un giovane, o magari solo un cafone di malumore, che non voleva essere disturbato.
Non si voltava mai, ed io nella mia mezz’ora di meditazione, mi rodevo di curiosità: così un giorno mi avvicinai a nuoto, come se la corrente mi avesse trascinato casualmente al suo scoglio, anche se l’acqua era bassa come in una bacinella.
Mai chiedere a uno che sta pescando: come va, che prendi?
Gli chiesi invece: arenicola? Muriddu? Tremolina? Posso vedere l’esca?
Si voltò, ed era giovane, cioè, adesso dico che era giovane, perché allora avevo vent’anni, e mi sembrò un uomo di mezza età: avrà avuto quasi trentacinque anni.
Il viso abbronzato, gli occhi divertiti, e un bel sorriso, mi guardò come una marziana, ma fu gentile, aprì la cassetta delle esche, e così cominciammo a parlare: di orate, spigole, galleggianti, cime, ami, per finire con le palle di pecorino, quelle per i muggini.
“Che però qui non ci sono”, mi disse.
“Lo so, si pescano alla foce dei fiumi”.
“Ma quante cose sa”.
“Mi piace andare a pesca”.
“Da quanto tempo?”
Feci un cenno con la mano, come per dire: secoli.
Mi guardò e rise. Poi si fece serio: “Tra non molto, disse, non ci sarà più nulla nemmeno qui”.
“Nemmeno? Perché? ”
“Perché l’uomo è una bestia stupida, che distrugge la ciotola dove mangia. Questo paradiso è simile a tanti altri, diventati un inferno”.
“Perché? “
“Cemento, scarichi fognari, depuratori che non funzionano, reti a strascico, lampare… e bombe. Ne ha mai sentito parlare?”
“ Si, ma… qui è tutto tranquillo”.
“Lei è molto giovane”, mi disse.” Per preservare questo paradiso, bisognerebbe lavorare tutti, ma tutti insieme. Invece, siamo in pochi, e con pochi mezzi... noi qui peschiamo con una canna e un’esca, una lotta leale tra due predatori: l’uomo e il pesce. Un rito antico come l’uomo, che non inquina né sfrutta l’ambiente. Sa invece cosa produce l’onda d’urto della bomba, nell’acqua? Un danno criminale a tutto l’ecosistema. E i pesci che si raccolgono a galla, sono una minima parte di quelli che vanno a fondo spappolati. Succede in tutta la costa, da un mare all’altro”.
“ Ma lei, passa sul mare tutto l’anno? Non ha un lavoro? ”
“Certo che ho un lavoro”, disse, voltandosi a frugare nella cassetta degli attrezzi.
Lo salutai, e tornai al mio ombrellone.
La sua pesca miracolosa aveva scatenato la mia invidia: decisi che sarei andata alla solfatara con la mia canna, di nascosto di tutti, e tornata trionfante con una spigola grande così.
La sera comprai una scatola di arenicola, la nascosi al fresco sul davanzale, pregando Iddio che a nessuno venisse in mente di aprirla, altrimenti i vermi se ne sarebbero andati a spasso per tutta la casa; la mattina smontai la mia canna da lancio, l’infilai nella custodia, me la misi a tracolla, poi infilai mulinello, straccio, retino, ami, forbici, lenze, la scatola coi vermi, tutto in una sacca appesa alla spalla destra, sulla sinistra il borsone con gli asciugamani le ciabatte e i costumi di ricambio; in mano, il contenitore dei panini, della frutta, e dell’acqua fresca.
Al momento di uscire, non riuscii a passare dalla porta.
Un’occhiata ai cento scalini che portavano al mare: se anche avessi fatto due viaggi, uno con le vettovaglie, il secondo con la canna, gli attrezzi, le esche, un asciugamano intorno al collo, le ciabatte in bocca, camminando così fino alla solfatara, non era cosa che potesse passare inosservata.
Dove vai?
A pescare.
E dove?
Alla solfatara.
Veniamo anche noi!
E addio chiacchierate con l’uomo misterioso, seduta in santa pace su uno scoglio.
Mi contentai di seguitare a spiarlo mentre pescava, ad ascoltare i suoi racconti, quando veniva a riposarsi accanto a me; a un certo punto mi disse di chiamarsi Claud ed io m’inventai di chiamarmi Melania.
“Dove abiti?” Gli chiesi.
M’indicò una palazzina con un terrazzino, dove sventolavano un paio di camice come bandiere al vento.
Forse è solo, pensai, e si lava da solo le camicie.
Non che volessi lavargliele io. Le camicie di mia pertinenza, bastavano e avanzavano.
E’ che quell’uomo – ero così giovane – m’incuriosiva.
Dopo una settimana, mi parlava di mari tropicali, dove si pescano pesci incredibili:
“Hai mai pescato un barracuda? Ormai si trovano anche da noi, ma io ho imparato a pescarli in Giamaica. Il momento migliore è l’alba, quando è ancora buio, sono predatori attratti dai colori vivaci, ma la mattina presto sembrano sonnolenti. Io usavo lo sgombro, o l’artificiale...”.
“Barracuda, no, ma a Foce Verde ho pescato un’anguilla, s’era infilata da sola nell’amo, non c’era nemmeno l’esca. Non ti dico per tirarla su, e per portarla a casa, poi! Mia suocera s’è chiusa in cucina, l’anguilla scappava da tutte le parti...”
“E a traina? Una volta, a Sharm, abbiamo perso una Lampuga. La dovevi vedere, bellissima, verde, gialla, oro, stavamo tornando con la barca, quando ha cominciato a lanciarsi fuori dell’acqua, e alla fine... l’abbiamo persa ”.
“A traina io ho preso una leccia, davanti allo stabilimento. Stavamo tornando, gli altri smontavano le canne, quando ho detto, io lascio la lenza fuori della barca, nell’amo c’è ancora una tellina, hai visto mai... be’, non ci credeva nessuno, ha abboccato una leccia di due... quasi un chilo di sicuro. L’abbiamo fotografata, non stava nel piatto”.
“Una volta mi trovavo in Senegal, al delta del Saloum...”.
Raccontava e gli occhi gli luccicavano. Forse in quei mari c’era stato davvero, forse l’aveva letto su internet, ma che importanza aveva? Eravamo due naufraghi su un’isola deserta, nonostante intorno a noi ci fosse un microcosmo di gente, e quella complicità ci divertiva.
La bellezza di una storia cristallizzata in nuce è incorruttibile, come il suo ricordo.
Quando me n’andavo, mi salutava col saluto militare, la mano alla visiera del cappello, come un commilitone; rideva, quando all’improvviso scappavo senza salutarlo, inorridita al rumore di un polipo che qualche ragazzetto, con un rito ancestrale, uccideva, battendolo sugli scogli.
Gli gridavo: io scappo! Tanto sapeva che sarei tornata.

Rientrando per il pranzo, la Vecchia ci salutava dietro il cancello e qualche volta ci regalava i fichi d’India.
Di notte, sul balcone della casa, arrivava il profumo del mare e l’alito della vigna, mossa da un refolo di vento.
Ormai la mia passeggiata mattutina era sempre alla Torre della solfatara; mi sedevo in silenzio sul mio scoglio, finché Claud, assicurata la canna, non veniva a fumarsi una sigaretta seduto accanto a me, raccontandomi le sue avventure di pesca.
Io gli raccontavo le mie, forse non esotiche, ma certo favolose: come quella notte che nel porto di Anzio avevo pescato una sogliola, che a dire di tutti, era un caso più eccezionale che se avessi pescato un salmone.
Io dicevo la verità, lui chissà, ma mentre parlava, sulla spiaggia ondeggiava l’ombra di palme fruscianti, nell’acqua guizzavano pesci dai mille colori, e gli scogli erano diventati di corallo.

Poi l’estate declinò all’improvviso, il tempo si era guastato, ci fu una settimana di pioggia; aspettammo, ma gli ombrelloni chiusi, la gente in fuga, il bagnino che aveva archiviato persino la macchina del caffè, ci decidemmo a tornare in città.

Fui sorpresa di trovare la casa ancora libera, quando dopo qualche anno tornammo. Odorava di muffa, come fosse rimasta disabitata per un’eternità. Spalancai la porta del balcone, e restai senza fiato: ma il mare?
Scomparso. Al suo posto, c’era il muro d’una villa, che si era mangiata tutta la vigna.
Anche il sole era scomparso: la casa non l’aveva voluta più nessuno.

Seppi che alla morte della Vecchia, un gruppo di palazzinari aveva posto l’assedio alla vigna, carte alla mano: qui non si può costruire, piano regolatore, vincolo paesaggistico, c’è il rischio che la esproprino, e a voi non resta nulla. Datela a noi, ci facciamo un parco giochi per bambini, ma dovete decidervi subito, perché il Comune sta per disporre l’esproprio.
Cosimo aveva chiamato il fratello: carte alla mano, su quel terreno non si poteva costruire, piano regolatore, vincolo paesaggistico che facciamo? Io mi contenterei di lasciarla così, due stanzette per la mia famiglia, e la vigna di nonna, sai quanto ci teneva, non posso pensare che qualcuno la distrugga. Se vuoi, ti do la tua parte, e col Comune me la vedo io, un modo ci sarà.
A Luciano non gli parve vero di acchiappare i soldi, e mollare il problema al fratello.
Cosimo andò in Comune: non c’era nessun esproprio.
L’inverno stesso costruì la villa: tre piani, sei balconi, una terrazza e un garage.
Poi la condonò.
La vigna e il mare erano scomparsi, e quando mi affacciavo al balcone, vedevo il bianco abbagliante di un muro. Le finestre, per vergogna? Per decenza? Si aprivano dall’altra parte, di fronte al mare.
Ora che il verde non c’era più, e non arrivava più un refolo di vento, la casa era diventata un forno. Dovetti comprare un condizionatore, che rinfrescava dentro e spandeva fuori il suo alito infuocato.

Ero furiosa. Avrei chiesto in giro, avrei fatto qualcosa.
Sicuramente il bagnino sa tutto, vive qui da trent’anni.
Scesi allo stabilimento, e credetti di essere altrove.
Su tutta la spiaggia, a pochi metri dalla battigia, erano spuntate decine di palazzi di quattro piani.
La spalliera fiorita era scomparsa. Distrutta dalle ruspe.
Al suo posto, finestre spalancate, panni stesi, acciottolio di piatti, televisori accesi, e un caldo infernale dal riverbero dei muri e dei condizionatori, che infuocava la sabbia.
“Non è possibile!” Gridai al bagnino, che a stento mi riconobbe: ormai lo stabilimento aveva un bar, duemila sdraio, un altoparlante implacabile che vomitava musica non stop.
“Come hanno fatto a costruire sulla spiaggia, ma non è proibito?”
“Era”, rispose. “E’ tutto condonato”.
“E dove sono le barche, dov’è la mia, quella con cui andavamo a pescare?”
“ Ma da quanto tempo manca lei?” Mi chiese sgranando gli occhi. “ Qui non pesca più nessuno, non c’è l’ombra di un pesce da anni, nemmeno una bavosa. Passano i motoscafi, e la notte, se si affaccia, vedrà le luci delle lampare, che fanno piazza pulita di quello che è rimasto”.
“ Le lampare? Ma non è proibito? ”
“ Signo’! “ esclamò, ” che proibito e proibito, ognuno qui fa quello che gli pare, se vuole pescare, se ne vada in Corsica”.
“E alla solfatara?” Gli chiesi.
“Ci provi”, rispose sibillino, e non disse più una parola, assorto a montarmi un ombrellone in decima fila.

Afferrai le ciabatte e mi avviai alla solfatara, lungo una fila interminabile di stabilimenti che si erano divorati tutta la spalliera fiorita. Quando arrivai, le ciabatte non servirono più: le rocce sulla terra ferma, quelle su cui mi arrampicavo con le mani e con i piedi, e che difendevano la spiaggia segreta dagli intrusi, erano state rimosse, ora si girava tranquillamente scalzi intorno al promontorio, ormai saldato poco più in là, lungo tutta la costa, ad altre interminabili fila di palazzi costruiti sulla sabbia.
I ragazzi giocavano a pallone, nessuno si tuffava a caccia di polipi; i più piccoli, col retino nell’acqua, aspettavano pazienti che ci si infilasse qualche sperduto gamberetto.
Claud non c’era. Ma c’era ancora il mio scoglio: mi sedetti e aspettai, cosa, non so. L’acqua mi carezzava le gambe, come tanti anni prima; e come allora, chiusi gli occhi.
Qualcosa mi sfiorò la caviglia, un’alga? Un ragnetto? Le ali d’una monachella? Un brivido di gioia, strinsi forte i pugni e guardai: una busta di plastica mi s’era infilata in un piede.

Dovevo far qualcosa, scuotere gli addormentati, urlareeee! chi ha permesso questo scempio? Quale follia, quale stupidità diabolica? Ascoltatemi! Qualcuno mi ascolti! Fate qualcosa, qualcuno si ribelli!
Immobili come cariatidi, c’erano ancora i pescatori, forse gli stessi che vedevo tanti anni prima; gente che non poteva andare a pescare in Corsica, che aveva solo quelle spiagge, solo quelle, dove aveva sempre pescato.
Aspettavano, con la canna in mano, assorti nella loro sfida con la preda, con il mare, con se stessi. Una sfida che non molli, anche quando l’unico che abbocca è un granchio che mangia l’esca, saluta e se ne va. Ma la canna vibra, si piega, il viso s’infiamma, ti alzi di scatto e recuperi rapido la lenza, che scorre nell’acqua sempre più leggera, finché viene su l’amo pulito. Rimetti l’esca, e aspetti: questa sarà la volta buona. Forse la fortuna ti assisterà, forse seguiterà a farti marameo, ma tu non perdi la speranza e provi a piegarla con tutta la tua tenacia: perché tenacia e speranza sono il sale della vita.
Pensai a Claud, e alzai gli occhi alla terrazza: le persiane erano chiuse e non c’erano camicie al vento.
Mollai ogni prudenza, mi avvicinai al primo pescatore che mi capitò e chiesi: che ha preso?
Non alzò nemmeno la faccia, schifato dalla mia domanda.
Tracine, rispose cupo.
Sta scherzando? Qui si prendevano le spigole...
Quando? Da quanto tempo manca da qui?
Perché?
Perché qui non c’è più niente. Qui di notte mettono le bombe.
Le bombe? Ma non è proibito?
Sarebbe proibito. Si faccia una passeggiata di notte, se non ci crede.
Tornai lentamente sotto il mio ombrellone, costeggiando gli stabilimenti dove, sparando musica a palla, un tale dall’altoparlante urlava ai bagnanti: Ballare! Ballare!
E nell’acqua un’orda di pance tremolanti, si dimenava al suono della musica.
Arrivai al mio ombrellone tappandomi le orecchie.

Pianificammo la spedizione notturna. Non saremmo passati dalla spiaggia, ma dalla strada, in macchina fino all’altezza della Torre, e poi giù per un sentiero fino ai cespugli della solfatara. Il buio della notte ci avrebbe nascosti. Gli amici mi avevano accompagnato tanto per fare qualcosa, per prendermi in giro, perché avevo insistito, ma alla bomba non ci credevano; nessuno, infatti, aveva pensato al rischio di trovarsi di fronte dei pescatori di frodo, che se erano capaci di mettere una bomba, avrebbero potuto anche massacrarci di botte, se ci avessero scoperti; e in cuor mio, anch’io pensavo che fosse una balla.
Una bomba è una bomba, come si fa a farla esplodere senza che nessuno se ne accorga?
In silenzio scendemmo alla Torre, e ci acquattammo nell’ombra della notte.
C’era un filo di luna. Al largo, tremolavano le luci di mille lampare.
L’aria era umida, faceva freddo, con la mano davanti alla bocca, mi sussurravano dai, andiamo a casa, tu sei matta, ma quali bombe,... quando silenziosissima la bomba esplose.
Come lo spruzzo d’una fontana, l’acqua si alzò in aria, ricadde.
Passò qualche istante. Sulla superficie del mare tornato immobile, galleggiava una distesa di pesci morti.
Delle ombre sbucarono di corsa dal buio, raccolsero rapidamente le prede, dileguandosi a un passo da noi, per il sentiero da cui eravamo discesi.
Non ci videro: o noi eravamo pietrificati, o loro avevano troppa fretta.

Li hanno presi!
Chi?
I bombaroli, quelli della solfatara… come, non lo sai?
Giorni dopo, sulla spiaggia non si parlava d’altro.
“Li hanno presi? E quando, chi?“ Chiesi.
“Come chi, la guardia costiera, voltati, quelli là, vestiti di bianco, in divisa, che stanno parlando col gestore”.
Mi voltai. Gli uomini vestiti di bianco se ne stavano andando, e ci passarono accanto, avviandosi verso la battigia.
Ma uno di loro si fermò, voltandosi verso il mio ombrellone: il viso abbronzato, gli occhi divertiti e un bel sorriso.
Portò la mano alla visiera, e mi salutò col saluto militare: come a un commilitone.

IraccontidelPrione

 

I racconti del Prione
Selezione 2011
Edizioni Giacchè.

Premio speciale della giuria per il miglior racconto di mare.

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