Giovanna Caraci

Buonanotte, Martina

Stringeva i pugni sul volante, maledicendo il momento che aveva detto di sì.

- Sbrigati, infilati qualcosa che ti portiamo a cena a Ostia, sul mare.

Era quello, il mare? Una muraglia di stabilimenti, un brulicare di ciabatte, richiami, grida, luci psichedeliche, musica a palla…

Oh il tonfo molle delle gocce di sonnifero nel bicchiere, consolante come pioggia autunnale!

…morire, dormire… dormire, sognare forse…” questo avrebbe disperatamente voluto, invece di farsi strada su quel litorale incasinato dalle macchine, per mangiare lo stesso fritto di paranza che facevano sotto casa sua.

- Ti distrai, per una sera non ci pensi – aveva detto Letizia.

Come se bastasse uscire per non pensarci. Tutte le storie diventano un’altra cosa, un matrimonio, un’amicizia, un tranquillo oblio, un omicidio, purché con garbo; quella con Clodio no, era finita proprio di merda.

Dormire; e nello spazio misericordioso della notte, essere altrove.

Invece aveva detto: – Sì, ma vengo con la mia macchina, magari poi voi andate da qualche parte, e io stasera non voglio fare tardi.

Nel ristorante, la puzza d’olio fritto le alitò sulla faccia.

- Mettiamoci fuori – aveva detto – vorrei vedere il mare.

Ma dalla veranda ma erano subito scappati, inseguiti dal vento che faceva volare la tovaglia e accapponare le gambe nude: nella sala interna, dove il panorama erano i vetri appannati dal vapore delle cucine. Sei chilometri per infilarsi in uno stanzone come d’inverno, pensava Sara, che sentiva salire l’incazzatura peggio di quando era uscita di casa. Ragazzini che correvano tra i tavoli, ci volevano i tappi nelle orecchie per trovare pace; solo due coppie di anziani galleggiavano su un’isola remota, gli occhi affamati concentrati sul piatto delle cozze come se cercassero perle.

Una tavolata di amici bevevano e ridevano guardandosi intorno: in cerca di avventure, gli idioti. Ce n’era uno, un moro con una salamandra tatuata sul braccio, che l’aveva puntata: perché siamo tutti trasparenti, inutile fingere di essere in compagnia; si capiva subito che lei era sola e scoglionata.

Il tizio era al terzo bicchiere di rosso della casa, e l’aveva sollevato in alto fissandola.

Sara avrebbe voluto spaccargli in testa la bottiglia.

Letizia disse: – Cambiamo posto, voltagli le spalle, mettiti qui.

Le voci nella sala rimbombavano, intrecciandosi alla sua: “…neanche se tornasse in ginocchio…” mentre gli occhi della memoria fissavano la mano rabbiosa di Clodio che trascinava fuori il suo trolley.

Era arrivato il caffè. Tiepido. Orribile. Un posteggiatore rompeva l’anima con “il barcarolo va” che porta pure sfiga. Che serata infernale.

- C’è troppo casino qua dentro. – Aveva gridato Letizia, vedendo l’amica con le mani sulle orecchie. – Andiamocene!

- Andate avanti con la vostra macchina, io vi seguo – aveva detto Sara.

Da quanto non era più uscita da sola la sera? Un’ombra l’aveva seguita a ogni passo: dietro al pianoforte quando lei studiava la partitura, seduto in un angolo alla prova costumi, al trucco, in camerino. In fondo alla sala, alle prove. In prima fila quando si alzava il sipario.

Un team commovente. Raro. Esemplare. Come sono affiatati, come si vogliono bene.

Quel puttaniere. A cinquant’anni, credeva di essere ancora al liceo. Perché gli uomini, prima di mettersi con una ragazzina, non si guardano allo specchio? Meno male che se n’è andato. Mi sento meglio. Ma mi devo abituare a uscire di nuovo con la mia macchina da sola, la sera.

Riprenditi la vita, esci quando ti va, di sera, di notte, e perché no?

… perché si sentono tante storie orribili… aveva detto agli amici.

- È risaputo che la strada per Ostia è piena di serial killer – le avevano risposto ridendo – stanno tutti nascosti dietro gli angoli, aspettando te.

Tornavano a Roma costeggiando la movida, davanti la Punto verde di Letizia, dietro lei.

Un groppo di rabbia le toglieva il respiro.

- Un pensiero positivo! – Gridò battendo i pugni sul volante. – Uno almeno, sennò scoppio! Socchiuse gli occhi: ecco, tra poco sono a casa, finalmente il letto è tutto per me, ci posso stendere le gambe di traverso. Allargare le braccia sui cuscini. Svegliarmi quando mi pareee!

Fare tutto quello che mi pareee! Perché sono libera!

Libera, liberaaa! Gridò battendo i pugni sul volante.

Follie! Follie! Delirio vano è questo …” Finestrino spalancato, la gente la guardava sbalordita. “…Sempre libera- a – a- deggio… Gioir! Gio- oo- oo- oir … Gio- oo- oo- oir …” Vocalizzi così potenti da superare il frastuono della folla; di un furore non previsto dallo spartito.

Al mi bemolle sovracuto qualcuno le gridò: Bravaaa!

Chiuse il finestrino: fine dello spettacolo. E poi per sentirmi cantare, si paga.

Macchine spazientite la sorpassavano, lei sterzava imprecando.

Ecco la Colombo, viaaaa! tra poco sono a casa.

La Punto mise la freccia a destra e s’infilò in una stradina nella pineta.

- Che cavolo!-gridò Sara – Gli avevo detto che volevo andare a casa!

Due colpi di clacson, fermatevi, dove stiamo andando? Macché, la macchina proseguì sobbalzando sul sentiero, forzando la barriera dei cespugli che gemevano sulle lamiere, poi i fari illuminarono uno chalet e la Punto si fermò per traverso davanti alla porta.

Anche Sara si fermò, aprì la portiera e scese come una furia.

La Punto verde spense il motore. Ne uscì il Moro con la salamandra sul braccio.

Sara si voltò di corsa verso la sua macchina, fece per entrare, ma subito si accorse che posto per fare manovra non c’era più.

Davanti, l’auto del Moro.

Dietro, la macchia fitta del bosco.

Era in trappola.

- Perché mi ha portato qui?

Il Moro rise.

- È lei che mi ha seguito.

- Seguivo i miei amici, hanno una macchina uguale alla sua. Mi staranno cercando, li avverto – e fece per prendere il cellulare.

L’uomo le afferrò il braccio.

Il cuore di Sara si fermò per un istante, poi sentì il caldo dell’urina che per il terrore le scendeva tra le gambe.

- Cosa vuole da me? – provò a gridare nella speranza che qualcuno la sentisse. – Ecco il portafoglio, la borsa, ma mi lasci andare.

- Calmati. Non avere paura. Non voglio nulla. Anzi, voglio una cosa: siediti accanto a me. Ci fumiamo una sigaretta e parliamo.

- Le ho detto che mi stanno cercando. Chiameranno la polizia.

Il Moro rise di nuovo.

-E secondo te, quando ci trovano? – e infilò la mano in tasca.

Prende la pistola. Ora mi ammazza

Chiuse gli occhi. Era capitato proprio a lei. Stava per morire a un passo delle macchine che sfrecciavano lungo la provinciale, dagli amici che la cercavano, nel fitto d’un bosco dove l’avrebbero trovata chissà quando, bocconi sugli aghi di pino.

È la fine di tutto, ma anche del dolore, pensò con sollievo.

È un attimo” si disse.

Un rumore di oggetti che cadevano, Sara socchiuse le palpebre: dalla tasca il Moro aveva tirato fuori un pacchetto di sigarette, un coltello da caccia, un accendino, le chiavi della macchina; li aveva buttati sullo scalino.

- Siediti acanto a me. – Sentì la voce dell’uomo. – Voglio solo parlare.

Era ancora viva. Le gambe le si piegarono. Il Moro l’afferrò prima che cadesse per terra e l’aiutò a sedersi sui gradini della casa.

Sara strinse forte contro il petto, le braccia che tremavano.

Mi vorrà violentare.

Il Moro disse:

- Stai tremando. Aspetta.

Entrò nello chalet e tornò con una bottiglia.

- Bevi, ti sei spaventata, bevi.

Sara non riusciva a muoversi. I calzoni bagnati appiccicati alle gambe, batteva i denti e aspettava il peggio; per il terrore di contrariarlo allungò una mano e bevve un sorso.

- Va meglio?

Sara annuì e chiuse gli occhi.

Il Moro si sedette accanto a lei.

- Adesso calmati. Nel ristorante ti guardavo perché avrei voluto parlarti, ma tu hai voltato la sedia per non vedermi. Eri incazzata con qualcuno. Tu somigli a una persona che… due gocce d’acqua. Stavo per chiamarti col suo nome. Tutto qui.

- Mi lasci andare – disse Sara in un soffio.

- Stai tranquilla, solo cinque minuti. Il tempo di una sigaretta. Tieni.

Le mani di Sara seguitavano a tremare, il Moro accese la sigaretta e gliela infilò tra le dita, poi aspirò una boccata e si voltò a guardarla:

- Non sono un ladro e non voglio violentarti. Ti ho portato qui quando ho capito che mi seguivi perché ti eri sbagliata. Questo è un posto speciale. Vedi quei segni là, sull’albero? Ci sono delle iniziali, delle date.

Raccolse il coltello, fece scattare la lama:

- Li incidevamo insieme, con questo.

Affondò un solco sul legno del gradino e la lama scintillò come una stella alla luce dei fari.

- Come ti chiami?

- Sara.

- Sara – ripeté il Moro sottovoce- quella ragazza aveva un altro nome, si chiamava Martina, ma gli occhi, i capelli, la voce… Ti ho sentito cantare mentre mi seguivi, e per un momento ho pensato che fosse lei che mi seguiva… incredibile, la stessa voce, siete identiche. Come se tu avessi una sorella gemella.

- Non ho sorelle. Ho due fratelli che mi stanno cercando.

- Tra cinque minuti ti lascio andare, te l’ho detto. Pensi che io sia pazzo, vero?

- No.

- L’uomo che ti ha fatto soffrire è uno stronzo. Se ne pentirà, ma non potrà tornare indietro.

Aveva voltato la testa e fumava con gli occhi fissi nel buio.

- …Ti telefonerà, e tu non risponderai. Te ne sarai andata chissà dove. Starai con un altro e di lui non te ne fregherà più nulla.

- Sto male. Mi lasci andare.

- Mi dai del lei, Martina?

- Io sono Sara.

- Sara, sì. È che le assomigli troppo… nemmeno se tornasse in ginocchio, hai detto… e credi che lui si rassegnerà? Rispondi.

- Non lo so.

-Seguiterà a cercarti dappertutto, in qualcuna che ti somigli… mi stai ascoltando?.

- Sì.

- Allora rispondi. Ti cercherà, lo sai?

- No. Sta con un’altra.

Il Moro si voltò di scatto:

- E allora? Si accorgerà di aver sbagliato. Tu non hai sbagliato mai?

Raccolse una manciata di sassi e cominciò a bersagliare il tronco d’un pino.

Poi si voltò a guardarla:

- Stai tremando. Hai freddo?

- Sono bagnata.

- Aspetta.

Entrò nella casa e ne uscì con un paio di jeans:

- Vatti a cambiare.

- Mi cambio a casa.

- Adesso.

- Allora voltati.

- Ora stai meglio, Martina?

- Sara.

- Scusa. È che siete identiche. I suoi jeans ti stanno benissimo.

- Sono di quella ragazza?

- Non ti riguarda.

- Allora lasciami andare.

- Scusa. Mi passerà. Passerà anche a te, nel ristorante eri così infuriata… e ora? Ti sei calmata?

- Sì.

- Hai ancora freddo?

- No.

- Paura?

- No. Ma voglio tornare a casa.

- Tra cinque minuti ti lascio sulla Colombo, la prima curva a destra dopo la rotonda. Sei capace di seguirmi, con la macchina, no? – il Moro rise – Ora però per un attimo, stop, guardati intorno: è una notte incantata. Per cinque minuti, sei capace di lasciarti andare?

- No.

- Lo so.

- No, non lo sai. Come fai a saperlo?

- Lo so, Martina.

La mano del Moro le sfiorò i capelli:

- ...via dall’anima in pena – l’angoscia paurosa... notte serena... guarda dorme ogni cosa... -accennò sottovoce, carezzandole i capelli.

Sara trattenne il respiro; gli occhi spalancati nel buio le si riempirono di lacrime. In tutta quell’orribile giornata, proprio questo le era mancato, una carezza che la consolasse e lacrime per lasciarsi andare. E questa consolazione era arrivata per una capriola del destino, da un povero diavolo incasinato come lei, che aveva solo bisogno di parlare. Tutto s’era immaginato, ma non che l’uragano si sarebbe placato in un cielo pieno di stelle. Sentì un lungo brivido sciogliere la morsa della paura, e il suo respiro allargarsi per accogliere dentro di se tutta la compassione del mondo, e la sua voce distendersi:

- ...dolce notte quante stelle... non ne vidi mai di sì belle... trema brilla ogni favilla...

- ...ah vieni, vien...

Quel grido d’amore non era per la platea, era per lei; e dentro di lei l’illusione dilagò tenera e straziante. Ingoiò le lacrime, strinse i pugni e si voltò ridendo:

- Come tenore, non sei un granché.

Anche il Moro rise:

- Lo so. – Scosse la testa: – Incredibile, anche la voce... Martina studiava canto.

- Ma dai! Davvero? È proprio una notte piena di sorprese.

- È una notte incantata, e mi dispiace di averti spaventato. Volevo solo parlarti, nient’altro.

- Ora ti senti meglio?

-Sì. E tu?

- Adesso sì, ma ho avuto tanta paura, credevo che mi volessi ammazzare. Non mi hai detto il tuo nome. Come ti chiami?
Un trillo nella notte, il Moro si alzò:

- È il tuo cellulare, te lo prendo io. Tieni.

Sara rispose:

- ...Letizia? No, tranquilla, non è successo nulla, è che mi sono distratta e sono finita nella pineta... ah, come non lo so, dai, dopo ti spiego, ho trovato una persona che mi aiuta a uscire. Tra cinque minuti sono sulla Colombo, la prima curva a destra dopo la rotonda.

Il Moro conficcò il mozzicone di sigaretta per terra.

-Coraggio, tirati su.

Le porse una mano, Sara si alzò di slancio e per un attimo, uno di fronte all’altro, si fusero i respiri e il profumo della pelle.

- Come ti chiami... – mormorò Sara; ma il Moro si era già chinato per raccogliere da terra le chiavi della Punto. Accese il motore.

Le due macchine si contorsero sullo spiazzo, una dietro l’altra, per sciogliersi sul sentiero, finché il bosco sì aprì alle luci della Colombo.

Letizia suonò allegramente il clacson, gridando:

- Finalmente! Coraggio, andiamo!

Il Moro scese dalla macchina, fece cenno a Sara di aprire il finestrino e si chinò su di lei:

- Buonanotte, Martina.

Qualcosa scintillò come una stella. La lama le affondò nella schiena.

Sara avvertì solo un colpo violento, come un forte pugno.

Si piegò sul volante. Sentì un gran sonno chiuderle le palpebre, e prima di addormentarsi, il rombo della Punto verde del Moro che scompariva nel fiume di macchine del sabato sera.

 

Pubblicato su Patria Letteratura - Rivista internazionale di lingua & letteratura:

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